venerdì 31 agosto 2012

A Buenos Aires per ripensare il giornalismo




Buenos Aires diventa per tre giorni la capitale mondiale dell’innovazione, tre giorni in cui giornalisti, appassionati di tecnologia e menti informatiche impegnate nell’hackeraggio costruttivo si incontreranno, dibattendo non solo su questioni tecniche ma sui media e sul loro futuro. Un modello importante anche per chi, anche in Italia, si ostina a voler nascondere e bloccare informazioni.  

Si chiama Hack/Hackers BA Media Party e si svolgerà dal 30 agosto (cioè ieri) al 1° settembre ed è l’unico evento del genere nel continente latinoamericano a cui si sono dati appuntamento i migliori giornalisti locali, ma anche esperti del Guardian e del New York Times, esponenti di Google, Mozilla Project e ProPublica. L’obiettivo è di mettere insieme tutti i progetti delle tre giornate di lavoro e darne il più possibile una forma ed una destinazione comune.

L’evento è ospitato dalla quinta comunità di Hack/Hackers più grande al mondo dietro NY, Londra, S. Francisco e Boston, a dimostrazione di come l’Argentina ormai viaggi realmente ad una doppia velocità in tema di tecnologia, creatività. Basti pensare al grande exploit di Palermo Valley, un progetto che ha preso il nome dalla più ricca e famosa Silicon Valley ma che con l’impegno di tutto ha visto fiorire più di 500 imprenditori del web con le loro idee su cui non sono mancati gli occhi delle più grandi multinazionali del settore.

Ma al Media Party di Buenos Aires si parlerà soprattutto di tecnologia al servizio della comunicazione e quindi di come superare le barriere della censura, compresa quella figurata nelle democrazie più grandi del mondo, di come superare frontiere ancora chiuse, insomma su come «ripensare il giornalismo» alla luce delle più moderne applicazioni e dei migliori progetti degli ultimi anni come ScraperWiki, Zeega, Tor, Ushahidi.

Nel giorno finale durante l’Hackaton, la maxi riunione di lavoro ci sarà la premiazione dei progetti più interessanti con borse fino a 50mila dollari per sviluppare il progetto inizialmente a livello locale e poi esportarlo anche altrove qualora ci siano ottimi margini di utilità ed ovviamente di profitto. Sono diversi i progetti già presentati sull’apposito sito e su cui si concentreranno i gruppi di lavoro: da una mappa dei femminicidi nel mondo o un’applicazione che curi il monitoraggio continuo dei luoghi più pericolosi fino a guide che si concentrano maggiormente sull’informazione 2.0 e sull’open source.

È un’altra grande occasione per la capitale argentina di consacrarsi uno dei centri nevralgici mondiali in tema di informazione, specie in questo momento di braccio di ferro fra il governo ed i grandi gruppi editoriali argentini, ma anche questo in fondo significa fermento culturale ed aspirazione ad emergere, quella che molte delle nostre grandi città hanno perso, perdendo con essa la creatività e lo spirito innovativo, cose che danno energia, passione ma anche denaro e lavoro. 

mercoledì 29 agosto 2012

Non solo Pussy Riot: quando la musica sfida il potere



Musica è libertà, un binomio a volte inscindibile ma al tempo molto scomodo, perché quando il potere non riesce ad utilizzare artisti e cantanti come sponsor, trova in loro un avversario più pericoloso di mille opposizioni e li trasforma in vittime di repressioni e censure
Nei giorni scorsi è toccato al gruppo musicale punk russo delle Pussy Riot, subire una ingiusta e condanna a due anni di reclusione per la loro preghiera anti-Putin nella Chiesa di Cristo Salvatore a Mosca e portare di nuovo alla luce il peso della musica unita alla satira o alla semplice denuncia politica, ma è sempre stato così specie dove l’arroganza del potere sottovaluta l’impatto di un simbolo del genere dall’America Latina all’Africa.
I primi esempi furono Miriam Makeba, “Mama Africa”, a cui venne revocata la cittadinanza sudafricana nel 1960, mentre la sua famiglia riceveva le visite della polizia segreta che chiedeva informazioni su un’eventuale rientro, mentre la sua musica fu bandita dal suo paese e chiunque la divulgasse era punito o incarcerato e Mercedes Sosa, inserita nella lista nera degli oppositori dopo il colpo di stato argentino del 1974, per poi essere arrestata nel 1978 ed esiliata con la censura totale. Ma c’è chi ha pagato con la morte le sfide al potere, come l’algerino Lounes Matoub ed il cileno Victor Jara.
Oggi la protesta prosegue e la repressione anche, e l’ultimo esempio è Cuba, dove soltanto qualche giorno fa è stato eliminato il bando verso le canzoni di Celia Cruz e Gloria Esteban e c’è chi, come Gorki Luis Aguila Carrasco, leader del gruppo rock Porno para Ricardo, apertamente critico verso il governo cubano, vedendo la vicenda delle tre ragazze russe rivede allo specchio la propria storia. «Sono solidale con le Pussy Riot perché la loro vicenda mi tocca personalmente», ha detto il leader del gruppo su facebook e su twitter. «Stessi politici tiranni, stessa intolleranza, stessi metodi. Putin e Castro prendono misure drastiche esemplari ma questo riflette solo la loro immagine di dittatori paurosi e disperati davanti alla forza di chi si batte per la libertà».
Già 2003 la polizia castrista impose al gruppo di cambiare nome, considerato volgare e contrario alla morale pubblica e pretese la modifica dei testi delle canzoni per eliminare gli espliciti riferimenti alla politica. Dopo il rifiuto di Aguila e colleghi alle direttive da parte dei musicisti, iniziò la vera e propria repressione. Nello stesso anno Gorki venne arrestato in virtù di una legislazione anti-droga, ma il processo cui fu sottoposto dibatté unicamente sulle iniziative controrivoluzionarie e l’utilizzo della musica rock per disordine sociale e si chiuse con la condanna a quattro anni.
Il leader del gruppo fu liberato dopo due anni in seguito ad una mobilitazione internazionale ma nel 2008 venne nuovamente processato per pericolosità sociale pre-delittuosa, accusa che si smontò e costò al cantante un’ammenda salata. Arresti, confische, minacce ed aggressioni sono all’ordine del giorno per Gorki, Ciro, Hebert e Renay come lo sono per Maria, Yekaterina e Nadezhda e l’unica forza è nel web come megafono del dissenso ed in fondo la fortuna delle Pussy Riot è che sulla Russia ci sono più occhi.
 

martedì 28 agosto 2012

Il mondo vede rosa ma l'Italia no



La classifica di Forbes sulle donne più potenti del mondo dovrebbe farci ancora una volta riflettere su quanto il genere femminile sia totalmente privo di autorità e di responsabilità nel nostro paese e di come perfino i tecnici che tanto parlano, parlano, alla fine non abbiano dato il giusto peso alla cosa.
Partiamo proprio da Forbes: nella classifica delle cento donne più potenti ci sono quattro cinesi (più due di Hong Kong, tutte nell’area business, la politica è ancora un tabù), quattro indiane (la quota di rappresentanza politica è salita al 33% e la prima donna capo del governo è stata Indira Ghandi nel 1966), tre brasiliane, due arabe, dove pure la condizione femminile dovrebbe essere comunque meno avanzata che in Italia ed in Occidente in generale, mentre l’Italia ne ha solo una e resta comunque in coda nelle classifiche di tutto il mondo.
Se il confronto con Usa ed Europa è sicuramente impari, stupisce che anche il «nuovo mondo» dall’America Latina all’Asia ci surclassi. Il caso più eclatante è proprio l’America Latina, un continente che da molto tempo parla sempre più al femminile. Dilma Rousseff è il primo presidente donna del Brasile e la terza donna più influente del mondo, ma non è la sola. In America Latina ci sono altre due donne alla guida di uno stato: Cristina Fernandez in Argentina e Laura Chinchilla in Costa Rica e sono le ultime di una lunga serie nell’epoca democratica (tra le altre Violeta Chamorro in Nicaragua dal 1990 al 1997 Mireya Moscoso a Panama dal 1999 al 2004 e Michelle Bachelet in Cile dal 2006 al 2010) ed in ogni caso sono tantissime le donne ad essere state almeno candidate per la guida del paese.
L’Argentina in particolare ha un presidente-donna, detiene il primato di donne alla Camera (37%) ed al Senato (36%), e sono di sesso femminile i vertici della Banca Centrale, l’Istituto Nazionale di statistica ed il maggiore gruppo editoriale del paese, il Clarin e si possono trovare donne in quasi tutti i consigli direttivi di grandi società. In Brasile la situazione è in miglioramento e comunque oltre alla già citata Rousseff, è una donna a dirigere il colosso petrolifero Petrobras (Maria Silva Foster) e ad aver presieduto la Corte Suprema (Ellen Gracie) e a gestire pur giovani importanti holding (Zeina Latif e Maria Helena Bastos).
In quasi tutti i principali paesi latinoamericani la percentuale di deputate non scende sotto il 20% (in Italia è il 17%) e quella di senatrici al 13%, che e è la quota italiana, e nel nostro paese ora ci sono solo tre ministre ma almeno in posti strategici ma in passato il massimo è stato sei e mai in sedi rilevanti, mentre la percentuale ministeriale latinoamericana è in media del 30% e la stessa cosa si verifica anche nell’ambito giudiziario (basti pensare che il 54% dei magistrati argentini è donna) ed in quello associazionistico-sindacale (in Cile il primo leader sindacale donna risale al 1996,  
Tornando a Forbes si può certamente discutere se sia opportuno inserire fra le donne più potenti gente come Shakira, Sofia Vergara, Gisele Bundchen e Jennifer Lopez (ed in ogni caso anche qui siamo assenti ed a corto di star e sono finiti i tempi di Anna Magnani, Sofia Loren e Mina), ma ciò che viene fuori, vedendo soltanto Miuccia Prada fra le cento donne più influenti, è ancora una volta l’immagine di un paese che, alla sua scarsa incidenza mondiale, alla faccia delle pari opportunità e di una democrazia già vecchia, aggiunge un’immagine della donna sempre più umiliata ed umiliante.  

lunedì 27 agosto 2012

Haiti supera la Tempesta Isaac con danni limitati




Si è chiuso il duro 26 agosto del Caribe, lasciando sul campo diversi morti e moltissimi danni, ma poteva andare molto peggio, specie ad Haiti dove la tempesta Isaac non è avanzata al livello di uragano ed in Salvador dove il terribile sisma non ha procurato uno tsunami.

Ad Haiti continuamente piegata dalle catastrofi naturali, la tempesta che ora si avvia pericolosamente verso le coste della Lousiana e della Florida, ha causato otto morti, 14.375 sfollati e 13.561 persone evacuate rapidamente in rifugi sicuri e temporanei ma che non si sa quando e  se potranno rientrare nelle loro abitazioni, visto che l’Occidente ed il Sud-Est del paese sono ancora in ginocchio per le inondazioni.

Il presidente Michel Martelly ed il primo ministro Laurent Lamothe già ieri si sono recati nei luoghi del disastro, hanno coordinato l’invio di generi di prima necessità, di personale medico in caso di emergenza ed hanno elogiato il grande compito della protezione civile che questa volta ha agito in fretta ed evitato ulteriori tragedie di vaste proporzioni, pur criticando il basso livello di aiuti internazionali dopo il terremoto del gennaio 2010.

Alla fine è stata più forte la paura dei danni, sebbene sia troppo presto per una valutazione precisa e sia altresì necessario evitare strascichi sanitari e sicuramente le stime economiche andranno riviste. Tuttavia l’aeroporto di Port-au-Prince ha ripreso a funzionare così come pure i trasporti e l’energia elettrica seppure a singhiozzo. «Le Organizzazioni non governative, la comunità internazionale e il governo di Haiti, ognuno è tenuto a mettere in evidenza tutte le sue risorse per fronteggiare una eventuale crisi umanitaria imprevista», ha detto il presidente Martelly, acclamato dalla gente per la prima volta per un presidente haitiano dopo anni.

Nessuna conseguenza invece per il sisma di 6.7 gradi Richter avvenuto in mare, al largo di El Salvador verificatosi nella tarda serata. Immediatamente il Centro Tsunami delle isole Hawaii ha diramato un allarme per tutta l’America Centrale che però alla fine è stato revocato. Altri terremoti sono stati avvertiti in Guatemala (4.7 gradi Richter) e ad Antofagasta in Cile (5.1 gradi Richter), anche questi senza danni né vittime.


domenica 26 agosto 2012

Tragedia in Venezuela: sotto accusa Governo e PDVSA




Tre giorni di lutto nazionale, interruzione delle ostilità elettorali, ma soprattutto 39 morti ed 86 feriti almeno  provvisoriamente e tanti mea culpa cui seguiranno polemiche amarissime: questo è il bilancio dell’esplosione di una raffineria ad Amuay in Venezuela, a causa di una fuga di gas sottovalutata e gestita male dagli inesperti tecnici in sede.

La raffineria si trova nel complesso di Paraguanà uno dei più grandi del paese, con una capacità di 940 milioni di barili al giorno, secondo le informazioni della compagnia petrolifera di stato PDVSA, ma questa esplosione, nel bel mezzo della campagna elettorale e con la frenesia da esportazione nel paese, mette alla luce un problema molto grave: non si può gestire un materiale tanto prezioso e pericoloso con criteri di fedeltà ma non di competenza.

Nella compagnia petrolifera proliferano assunzioni di gente assolutamente improvvisata mentre i manager sono impegnati in azioni di militanza politica e a denunciare tutto ciò sono proprio persone del luogo e perfino Ivan Freites ex tassista, oggi segretario tecnico della Federazione dei lavoratori del petrolio, vicino ad Hugo Chavez tanto ad avergli dedicato numerosi riconoscimenti ricevuti in Spagna.

Nessuno, tranne qualche militante locale, ha pensato di sfoderare la tesi del complotto e neppure nell’entourage del presidente hanno accennato a qualcosa del genere e si guarderanno bene dal farlo perché con il popolo e con i morti non si scherza ed iniziano ad essere tante le denunce anche fra i sostenitori della rivoluzione chavista a lamentare condizioni di sicurezza scarse o inefficace, scarsa formazione dei dipendenti e superficialità dei tecnici.

Sebbene non abbia parlato direttamente neppure lui, Henrique Capriles, lo sfidante alla presidenza, che potrà solo guadagnare consensi da questa tragedia (è triste parlarne in questi termini, ma la verità è questa), lo ha fatto attraverso i media che lo sostengono e che ricordano quante richieste di aiuti dall’estero ed in particolare dagli Usa e dal Messico sono stati rifiutati da Chavez e che avrebbero di gran lunga migliorato la qualità delle operazioni nel settore. Invece in questi anni ci sono stati licenziamenti, città svuotate ed ora l’opposizione chiede un’indagine sull’incidente ma anche sui soldi di PDVSA, sul loro utilizzo.

L’intera zona è stata evacuata e ci sono danni ingenti anche agli edifici circostanti. Le immagini scattate da vicino da un fotoreporter parlano da sole. Morti e sfollati ma ad Amuay assicurano che in 2-3 giorni si riprenderà a lavorare e questo, paradossalmente, fa più paura della nube di fumo e delle notti senza casa per gli sfortunati abitanti dell’area, magari operai con le loro famiglie.






giovedì 23 agosto 2012

Venezuela: il baratro dopo le elezioni?



La battaglia delle promesse sta sortendo ottimi effetti elettorali in Venezuela, ma come sempre accadde ovunque, le promesse sono nemiche della grande finanza e siccome Hugo Chavez è nella lista degli antipatici e spende a spande alla grande, il 2013 si annuncia in salita con svalutazione monetaria e minacce di recessione o forte regressione di crescita, ma andiamo con ordine.

Molti giornalisti hanno definito la campagna elettorale per la presidenza «brutale» e per fortuna non per la violenza, che sembra essere di gran lunga smorzata rispetto alle aspettative ma per l’incredibile tour de force di tutti i candidati, bagni di folla intervallati da proteste anche plateali, lanci di uova ed impegni al rialzo sulla sicurezza (Caracas è una delle città più violente del continente), sui programmi sociali (edilizia popolare anche per le classi medie) e su economia ed energia (promesse di distretti industriali e di nuovi incentivi energetici).

Da una parte il solito super Hugo Chavez, meno super delle scorse volte per via di un tumore alla prostata ma esteso che lo ha costretto a lunghe soste e ad un massiccio utilizzo dei suoi cavalli di battaglia mediatici: la televisione, in particolare Telesur, facebook e twitter con il suo aggiornatissimo #chavezcandanga, dall’altra il golden boy Henrique Capriles, candidato unico delle opposizioni, fra i dieci politici più affascinanti del mondo, appoggiato da Mario Vargas Llosa e dal più noto giornalista venezuelano Teodoro Petkoff.

Proprio il Nobel qualche mese fa ha dato per vincente Capriles in caso di elezioni libere, ma se è vero che i sondaggi ormai sbandano ovunque, è difficile pensare che si possa sbagliare di 12,5 punti percentuali, perché tali sono quelli che dividono Chavez, al 46,8% da Capriles in aumento al 34,3%, un divario quasi irrecuperabile, anche perché il presidente governa a suon di concessioni e non si fermerà almeno fino alla soglia delle elezioni.

Il costo c’è e si inizia già a vedere. La spesa pubblica è stata aumentata del 34% nell’ultimo semestre rispetto ad un anno fa e l’inflazione sta galoppando fino alla cifra record reale del 27%. Il debito esterno è alto ma ancora gestibile a 95,6 miliardi di dollari mentre quello interno è volato fino a 57 miliardi di dollari con un incremento del 47% del PIL a fine anno. Per giunta, nonostante il prezzo del petrolio alle stelle il Venezuela produce ma non riesce a vendere tutto ed il Brasile lo ha perfino superato e l’obiettivo di 5 milioni di barili al giorno è lontano (il paese è fermo a 3 milioni).

Colmo dei colmi: il paese con maggiori riserve petrolifere soffre di carenza di gas e continui collassi energetici e rischia di diventare un paese importatore. Sono in molti a credere che chiunque vinca, proporrà la dura stagione dell’austerity dal 2013, ma è certo che se dovesse vincere Chavez, la finanza internazionale non lo perdonerebbe e condannerebbe il paese ad un durissimo periodo di restrizioni finanziarie, salvo l’aiuto della Cina. 

martedì 21 agosto 2012

La vera sobrietà di Mujica vale un Nobel?




In tempi in cui la fiducia verso la politica è  globalmente ai minimi storici e ci sono primi ministri che predicano sobrietà e crescita ma non hanno rinunciato a neppure uno dei loro tanti benefici e vitalizi accademici e politici, non dovrebbe suonare strana la proposta del Nobel per la Pace 2012 al presidente dell’Uruguay José Mujica.

Nei giorni scorsi è bastato il tam-tam internazionale nel web sul capo di governo più povero del mondo, per giunta in uno dei paesi più ricchi del continente latinoamericano e tacciato di essere un sicuro paradiso fiscale, con l’elenco delle operazioni benefiche dell’attuale leader uruguayano per avviare la campagna su Facebook ed altri social network e promossa dal filosofo Edoardo Sanguinetti (da non confondere con lo scomparso poeta genovese) in un lungo editoriale su El Pais uno dei maggiori quotidiani del paese.

La proposta, in realtà, non è nuova. Già nel 2010 Mujica figurava fra i candidati al Nobel per la sua totale trasformazione politica, da leader dei ribelli del Movimento di Liberazione Tupamaro a capo di una unita coalizione di sinistra, il Frente Amplio che governa il paese dal 2005 e che quando gli fu chiesto di abolire le leggi di amnistia e pacificazione rispose, pur in dissenso con molti nel suo partito di non volere né vendette, né vecchi prigionieri.

È l’unico presidente che ancora oggi si rifiuta di abitare nel palazzo presidenziale ma continua vivere con la moglie Lucia Topolansky nella sua vecchia tenuta fuori Montevideo, ha un patrimonio totale quantificato in 163mila euro, con una rendita mensile di 10mila euro, il cui 90% viene destinato a progetti di aiuto umanitario, tenendo per sé ciò che gli occorre più una vecchia Volkswagen che usa per recarsi al lavoro.

Quest’anno Mujica ha aperto le porte del palazzo presidenziale come rifugio per indigenti per tutto il periodo invernale ed ha dichiarato altresì di voler donare parte della sua liquidazione pensionistica a fondi e movimenti che si occupano di progetti di solidarietà e di voler tornare a vivere come un comune cittadino senza ulteriori impegni politici, né arricchimento personale. Una scelta a dir poco degasperiana, in un’epoca dove la politica, anche in America Latina è un lavoro fisso e redditizio.

Nelle ultime settimane diversi Premi Nobel, fra cui Mario Vargas Llosa, si sono congratulati con Mujica per la sua coraggiosa scelta di statalizzare e controllare la vendita delle droghe leggere per eliminare, la violenza e il denaro sporco che circola nel paese a causa del narcotraffico. «Qualcuno deve essere il primo, perché stiamo perdendo la battaglia contro la droga ed il crimine nel continente. Lo faccio per i giovani, perché i modi tradizionali di affrontare questo problema hanno fallito», ha detto Mujica. Quanto basta non per il Nobel ma per diventare un’icona mondiale.


lunedì 20 agosto 2012

Assange arringa i sostenitori. Giallo sull'ingresso della polizia inglese


Nervi di nuovo tesi fra Gran Bretagna ed Ecuador dopo il breve comizio che Julian Assange aveva già annunciato di voler tenere dal balcone dell’Ambasciata ecuadoriana a Londra con il suo difensore, l’ex magistrato spagnolo Baltasar Garzon al suo fianco.

Julian Assange infatti ha detto apertamente di aver sentito nella notte la polizia cercare di entrare nell’edificio per raggiungerlo e catturarlo attraverso la scala di emergenza, dissuasa poi dal fatto che c’era troppa gente attorno all’edificio e che agli occhi del mondo sarebbe stata palese la violazione della Convenzione di Vienna da parte della Gran Bretagna. Proprio ieri i paesi dell’ALBA hanno adottato una risoluzione comune di condanna contro le minacce dei britannici che potrebbe essere bissata dall’Unasur.

Scotland Yard ha categoricamente smentito di essere entrata o di aver tentato di entrare nell’Ambasciata, tramite il suo portavoce, accusando altresì Julian Assange di essere un bugiardo e di aver cercato ulteriore sostegno popolare alle sue ragioni per incrementare ancora di più il numero di persone e media attorno a lui, magari anche per cercare di uscire con un auto diplomatica senza dare nell’occhio.

Assange, dal canto suo, ha ringraziato l’Ecuador ed il presidente sudamericano Correa per il loro coraggio ed il loro esempio democratico ed ha ribadito la volontà di rispondere in videoconferenza ai magistrati svedesi sulle accuse di violenza sessuale e ha rivolto un appello al presidente Usa Barack Obama affinché si impegni a non proseguire nella caccia alle streghe e sia corretto nei confronti di chi diffonde e persegue la verità e lotta ogni giorno contro la disinformazione negli Usa, in Australia ed in Gran Bretagna.

All’uscita dall’Ambasciata anche il difensore Baltasar Garzon ha confermato la volontà di Assange e dell’Ecuador di giungere ad un accordo con la Gran Bretagna al fine di favorire l’uscita del fondatore di Wikileaks e la sua eventuale estradizione in Svezia con delle precise garanzie e senza che per questo ne segua una persecuzione politica. 

domenica 19 agosto 2012

Asilo ad Assange: forse l'Ecuador ci ripensa


Sul caso Assange dopo la rabbia e la sfida arrivano i toni bassi sia da parte dell’Ecuador che da parte della Gran Bretagna, entrambi ben consapevoli che la situazione, in mancanza di dialogo, non potrà sbloccarsi e che forse il paese sudamericano con una positiva pressione dell’UE su Unasur ed Organizzazione degli Stati Americani potrebbe anche cambiare idea.

Il presidente ecuadoriano Correa nei giorni scorsi ha garantito che l’Ecuador, essendo un paese neutrale e non vincolato da convenzioni ed accordi con gli Usa e con altri paesi europei in materia, non procederà ad alcuna estradizione di Assange, una volta nel territorio del paese sudamericano, ma il problema è arrivarci, visto che in qualunque modo Assange esca potrebbe essere comunque prelevato dalla polizia inglese, sia fuori dall’Ambasciata che in aeroporto, cosa su cui il paese andino non può garantire.

D’altro canto Cameron ha invitato specialmente il Foreign Office a mantenere la calma ed a ridimensionare anche il riferimento all’ormai famigerata normativa del 1987 sulla sospensione dell’immunità diplomatica per favorire la cattura di personalità che abbiano compiuto reati e siano fuggite sotto arresto in ambasciata, in riferimento a ciò che accadde nel 1984 quando una poliziotta inglese Yvonne Fletcher venne uccisa con un colpo sparato dall’Ambasciata libica.

Insomma l’Ecuador è pronto a trattare ed è disposto a rilasciare Julian Assange nelle mani delle autorità britanniche a patto che la Svezia, paese in cui sarebbe estradato il giornalista australiano ed in cui è indagato per una presunta violenza sessuale, non proceda ad un ulteriore estradizione negli Usa ma la Svezia si è ritenuta addirittura offesa e per bocca del suo primo ministro Reinfeldt ha difeso l’indipendenza del sistema giudiziario svedese nell’attesa di conoscere gli sviluppi del caso diplomatico.

Per giunta il paese sudamericano vedrà saltare il rinnovo dell’Andean Trade Preference Act con gli Usa che scade nel 2013 perché l’asilo accordato a Julian Assange (su cui c’è chi nutre dei dubbi perché si pensa che il paese e lo stesso Assange stiano bluffando) è l’ultima goccia che ha fatto traboccare un vaso già pieno sia con l’espulsione dell’ambasciatrice americana a Quito Heather Hodges, che con la condanna al pagamento di 19 miliardi di dollari alla Chevron per la contaminazione nella zona amazzonica del paese, con il conseguente rifiuto di Correa a pagare i danni alla compagnia petrolifera come imposto da un tribunale arbitrale.

Gli Usa restano ancora il primo partner del paese nella bilancia commerciale delle importazioni, con il 25,3% delle merci importate, che nelle esportazioni, soprattutto di prodotti alimentari con il 33,5% del totale, senza considerare le numerose multinazionali che vi operano ed è più che scontato che il paese sudamericano (per cui è prevista una crescita al 6% quest’anno, una delle più grandi dell’area)  cerchi sostegno negli altri paesi, in particolare nell’ALBA, per bilanciare eventuali perdite di vantaggi, salvo ripensamenti, che oggi sembrano possibili. 

venerdì 17 agosto 2012

Assange rifugiato politico in Ecuador. Gelo di Usa e Gb



Ci sono seri motivi per ritenere Julian Assange vittima di una rappresaglia per quanto ha divulgato ed è certo che in caso di estradizione in Svezia finirebbe negli Usa a Guantanamo con rischi per la vita». Questo è la motivazione del Ministro degli Esteri ecuadoriano Ricardo Patino che ha accordato al fondatore di Wikileaks lo status di rifugiato politico.

Nervi tesi, dunque, fra la Gran Bretagna che aveva arrestato Julian Assange e garantito la sua estradizione in Svezia dove dovrebbe subire un processo per una presunta violenza sessuale e l’Ecuador, ma soprattutto fra il paese sudamericano e gli Usa con cui le relazioni diplomatiche si ruppero già nell’aprile del 2011 quando Correa espulse l’ambasciatore statunitense Heather Hodges proprio dopo essere venuto a conoscenza di cable in cui si citava il presidente ecuadoriano al centro di episodi di corruzione verso la polizia.

Già nel novembre del 2010 l’allora ministro degli Esteri Kintto Lucas offrì un permesso di soggiorno al giornalista australiano in cambio di tutti i file in suo possesso sull’Ecuador appartenenti all’Ambasciata americana e Rafael Correa prese in considerazione l’ipotesi di un salvacondotto speciale al fine di evitare l’estradizione in Svezia per reati sessuali che lui ha sempre negato e soprattutto per impedire quella che tutti considerano una scontata successiva estradizione negli Usa.

Da parte sua la Gran Bretagna per mezzo del portavoce del Foreign Office ha dichiarato che nulla cambierà e che in ogni caso Assange sarà assicurato alla giustizia. Nei giorni scorsi l’Ecuador ha denunciato una minaccia di ingresso nella sede diplomatica da parte di Scotland Yard ed il governo di Cameron ha confermato che una legge del 1987 permetterebbe tale ingresso e l’arresto di persone sotto controllo giudiziario, fuggite illegalmente e senza rilascio di passaporto britannico.

È molto facile però che si concretizzi molto più semplicemente il richiamo reciproco degli ambasciatori o addirittura la misura più drastica della revoca dello status diplomatico ai funzionari dell’Ambasciata di Quito a Londra, ma il braccio di ferro ora si sposta verso gli organismi internazionali: l’Ue verso cui hanno intenzione di fare pressione Gran Bretagna e Svezia e l’Organizzazione degli Stati Americani che oggi potrebbe votare una risoluzione comune contro le minacce britanniche ma di cui fanno parte anche gli Usa, assolutamente contrari con i loro alleati.

A Washington, in piena campagna elettorale per le presidenziali di novembre, la vicenda del giornalista australiano rischia di trasformarsi in un boomerang per il presidente Obama che sa bene quanti  sostenitori di Julian Assange, che prese di mira soprattutto l’ex amministrazione repubblicana di Bush, ci siano anche fra i suoi elettori. 


CRONOLOGIA DELLA VICENDA DI JULIAN ASSANGE

2010 
18 novembre: la Svezia emette un mandato d'arresto contro Julian Assange, sotto inchiesta per presunto stupro e violenza sessuale di due donne.  
28 e 29 novembre: la stampa mondiale ha cominciato a pubblicare una parte dei 250.000 dispacci diplomatici americani rivelati da Wikileaks. Gli Usa parlano di reato grave e minacciano di citare in giudizio Assange.  
16 dicembre Assange viene arrestato a Londra. L'Alta Corte di Londra gli concede la libertà sulla parola sotto stretto controllo giudiziario nel palazzo di uno dei suoi amici nel nord-est dell'Inghilterra. 
2011 
12 gennaio: Il difensore di Assange avverte che c’è il serio rischio che, una volta estradato in Svezia, il fondatore di Wikileaks potrebbe essere trasferito negli Usa, a Guantanamo e, forse, «braccio della morte».
24 febbraio: La giustizia britannica convalida la richiesta di estradizione.
2012 
27 febbraio: WikiLeaks inizia la pubblicazione di più di cinque milioni di email sulle informazioni sulla società privata statunitense di analisi strategica Stratfor. 
17 aprile: Julian Assange lancia il canale TV in partnership con la russa stato RT. La sua prima intervista è al capo del movimento sciita libanese Hezbollah, Hassan Nasrallah. 
30 maggio: La Corte Suprema respinge l’appello nel mese di novembre ed autorizzata l'estradizione di Assange. 
14 giugno: La Corte Suprema respinge la richiesta di revisione del ricorso Assange. 
19 giugno: Assange si rifugia presso l'Ambasciata dell'Ecuador a Londra e chiede asilo politico. 
24 luglio: L’ex giudice spagnolo Baltasar Garzon ha accettato di guidare il team di difesa di Julian Assange e WikiLeaks. 
25 luglio: Ecuador annuncia che risponderà alla richiesta di asilo politico dopo le Olimpiadi di Londra.